Quasi tutti i creativi passati dalle pagine di Sardegna Creativa hanno scoperto la propria passione giovanissimi. Nicola Baraglia, documentarista, direttore della fotografia e montatore di Iglesias, ha una storia diversa. La sua vocazione l’ha trovata tardi, fra i banchi dell’università.
Ho trovato la mia strada nel corso degli studi di comunicazione a Cagliari. Durante l’esame di cinema e un corso sull’alfabetizzazione al linguaggio audiovisivo, grazie al professor Floris, ho scoperto la narrazione per immagini. La ripresa e il montaggio sono ideali per me, che sono introverso.
Dopo la triennale, ho fatto un master in Restauro di materiale audiovisivo, in collaborazione con l’Università di Udine, durante il quale ho visionato molti home movies.
Influenzato da quanto appreso, Nicola realizza il suo primo lavoro, un home movie legato alla storia della sua famiglia.
Tornato a casa, ho montato il primo documentario sulla storia di mio padre e delle sue lotte per il lavoro, Pietranera.
Tutto il mio percorso parte da lì: con un gioco di parole possiamo dire che Pietranera è la pietra angolare della mia vita professionale.
Dopo Pietranera, per Nicola arriva il momento di fare il primo dei suoi innumerevoli viaggi: la tappa è Milano.
Ho voluto continuare a studiare come si raccontano le storie e sono andato a Milano a studiare Televisione, Cinema e New Media. In facoltà ho conosciuto alcuni professori che lavorano nel mondo del cinema e della tv.
La specialistica alla Iulm è stata davvero dura, ma la passione mi ha trascinato.
Durante gli studi ho sperimentato il lavoro sul campo: con altri ragazzi ho realizzato video sull’Arte Povera per la Triennale di Milano, univamo il sapere teorico al saper fare.
A Milano Nicola fa un incontro fondamentale per la sua carriera, uno di quegli incontri che ti cambiano la vita.
Alla casa dello studente viveva con me Giuseppe Carrieri, un ragazzo che faceva il dottorato e aveva già lavorato per la Rai: gli ho fatto vedere Pietranera e lui mi ha coinvolto in un progetto, la Natia Docufilm.
Ho così cominciato con lui la carriera di montatore e direttore della fotografia.
Così come è accaduto con Pietranera, Nicola sente il desiderio di raccontare la società, la vita delle persone comuni, la storia di terre distanti e martoriate. La prima tappa è la Bosnia.
Su idea di Giuseppe siamo andati a Srebrenica, autoquotandoci, per raccontare il genocidio vent’anni dopo la fine della guerra. Ci siamo rimasti una ventina di giorni. È stato un lavoro che ci ha lanciato, un’esperienza molto forte che è stato anche un successo inaspettato, ha vinto premi in 7 festival diversi, fra cui l’Al Jazeera Film Festival, il Festival dei Diritti Umani di Ginevra, Il Bellaria Film Festival.Grazie a questo lavoro ci siamo potuti proporre nel mondo del documentario e dell’editoria.
Il bel lavoro spalanca porte importanti a Nicola e alla Natia Docufilm, che collaborano freneticamente con magazine e tv nazionali.
Abbiamo proposto un’iniziativa a Repubblica sugli italiani all’estero: con Italianifuori, siamo stati alla Nasa, a Los Angeles per incontrare una ragazza della Dreamworks e a New York dal jazzista Alberto Pibiri. Per Sky Arte abbiamo realizzato un’altra serie, Artisti in fuga: siamo stati alla Pixar a parlare con gli italiani che ci lavorano e abbiamo fatto il “ritratto” del designer Gaetano Pesce.
Grazie a Nemo, profeti del futuro, un programma per il canale Marco Polo, siamo andati a Bergen, in Norvegia: abbiamo raccontato la storia di un pescivendolo che faceva anche lo scrittore. Siamo stati in Iraq con Emergency, e siamo andati in Sri Lanka con Oxfam per documentare i problemi dei villaggi alle prese con la scarsità d’acqua e la deforestazione. Raccontavamo le storie delle persone comuni, come quella di mio padre: il sociale torna sempre.
Da una parte all’altra del mondo, da una storia all’altra, Nicola scopre realtà sempre diverse, sempre interessanti.
Nel 2014 ho fatto parte di un altro progetto stupendo: dopo il reportage in Sri lanka, Oxfam ci ha coinvolti in un progetto crossmediale per il magazine Io Donna: Sei scrittrici, mille voci. La sfida era mettere insieme un videomaker, un fotografo e una scrittrice per raccontare l’attività di Oxfam: sono stato in Ecuador, in Cambogia e ad Arezzo con tre scrittrici diverse. Era uno delle prime volte che mi trovavo da solo, potevo prendermi i miei tempi: e lì che ho unito la passione per il video alla fotografia di reportage, è scoccata lì scintilla per la fotografia di reportage.
Il 2015 porta in dote l’Expo e un progetto legato all’Italia.
Abbiamo curato una video installazione, Panorama 360, un padiglione in piazza Gae Aulenti dedicato alle bellezze d’Italia. In un mese ho scoperto dei posti bellissimi e dei mestieri che si stavano perdendo. Il padiglione è stato poi mandato a New York, non so se si trovi ancora lì.
Durante Expo, il destino o il caso mette Nicola di fronte a un regista canadese che intende girare un docufilm su una brillante iniziativa dello chef Massimo Bottura:
Per casualità ci siamo imbattuti in un regista canadese, Peter Svatek, che cercava una troupe per un film sul Refettorio Ambrosiano, un teatro trasformato in refettorio su idea di Bottura e inaugurato durante l’Expo. Abbiamo seguito le storie degli chef e di quattro persone in difficoltà che andavano lì a mangiare. È stata un’occasione di crescita, perché ho lavorato con un regista con molte esperienza alle spalle.
Il film sarà al Festival del Cinema di Berlino.
Un altro progetto coinvolge Nicola e la Natia Docufilm: questa volta è Tv2000 a commissionargli un’altra serie a sfondo sociale.
Nel periodo “di fermo” con il film sul Refettorio Ambrosiano, abbiamo realizzato Appunti sulla felicità, otto docufilm su storie al femminile in paesi problematici, dove sembra che la felicità sia preclusa. Io ho fatto il direttore della fotografia per due puntate: sono stato in Afghanistan, dove grazie a Pangea, un’associazione italiana, alcune donne hanno aperto le loro attività sfruttando i microfinanziamenti, e in Pakistan, dove abbiamo raccontato la storia di alcune donne sfregiate dall’acido e di un’associazione che, oltre a fornirgli le cure, gli insegna il mestiere dell’estetista.
Nicola non si ferma più: insieme a Marco Caddeo, suo migliore amico e collega dai tempi degli studi a Cagliari, partecipa e vince diversi premi a un concorso internazionale, My Rode Reel, con il corto The Box. Un altro film con la Natia e Rai Fiction, girato in quattro paesi, mette il punto esclamativo a un 2016 entusiasmante.
Storie che meritano di essere raccontate
Se la crescita di Nicola è stata così rapida, il merito va alla sua determinazione, ma senza dimenticare chi, durante gli studi, gli ha fatto da mentore.
Dopo essermi laureato alla Iulm, il professor Gianni Canova mi ha affidato un incarico per la web tv dell’Università: curavo la parte tecnica, assemblavo le puntate e aiutavo gli studenti a realizzare i servizi
Durante la sua carriera, Nicola ha affrontato ostacoli e momenti di smarrimento:
Le difficoltà c’erano e ci sono: è difficile campare coi documentari, con i progetti autoprodotti al massimo recuperavi le spese, per fortuna col tempo e con l’esperienza accumulata riesci a tirar su uno stipendio dignitoso.
I primi tempi mi chiedevo se ne valesse la pena, poi quando il regista canadese mi ha telefonato e mi ha detto “siamo a Berlino” le nubi si sono diradate. Mi piace scoprire storie di vita ordinaria, storie che meritano di essere raccontate: i miei non sono lavori artistici, io mi sento un documentarista, riporto dei fatti con una mia visione.
Ci sono tante storie ancora da scoprire e da testimoniare, con video e foto: ho sempre più voglia di raccontarle.
Nicola vive a Milano da tempo, ma non ha dimenticato la sua terra d’origine.
Il mio obiettivo è mettere le mie conoscenze a disposizione della Sardegna: mi piacerebbe fare workshop sui documentari, ad esempio. Se c’è un’idea che mi piace, sono ben contento di mettere a disposizione le mie conoscenze.
Nel futuro di Nicola c’è la voglia di andare all’estero per crescere ancora.
Nicola Baraglia ha solo 33 anni, ma un bagaglio di esperienza di tutto rispetto. Si potrebbe definire la storia di un “vincente”, se non fosse che a lui non piacerebbe affatto questo termine: forse è meglio definirla la storia straordinaria di una persona ordinaria.